Nella chiesa dei Cappuccini di Manoppello c’è un velo molto sottile, tessuto di bisso, una fibra preziosa ricavata da un mollusco. Un velo semitrasparente che porta impresso il volto di un uomo. Un primo sguardo può lasciare interdetti ed alimentare la sensazione che si tratti di un dipinto quattrocentesco, opera, peraltro, di un pittore piuttosto mediocre. E’ il volto di uomo con barba e capelli lunghi, gli occhi aperti in uno sguardo mite e una bocca semiaperta che sembra accennare qualcosa e, talvolta, aprirsi ad un sorriso. A guardare bene, però, sul volto appaiono macchie scure, visibili sul naso, nel sopracciglio, tra la barba. Macchie di sangue o di siero che corrispondono perfettamente a quelle visibili sul volto dell’uomo della sindone.
Chi si avvicina e lo vede dal vivo misura immediatamente
quanto il riflesso della luce ed il punto di vista influiscano sulla percezione
dell’immagine. Basta spostarsi leggermente per mettere a fuoco la trama di
bisso, oppure per riconoscere le macchie di sangue o di siero impresse sul
velo. Ma lo sguardo può anche andare oltre e puntare su ciò che sta dietro ed è
visibile in trasparenza.
E’ il volto di Gesù?
Misteriose e avvincenti peripezie hanno condotto fino a
Manoppello questo strano oggetto che alcuni fanno coincidere
con la Veronica, il velo con il volto di Cristo particolarmente venerato a
Roma in età medievale. Ma per quanto possano suscitare curiosità ed interesse
queste storie il fascino di questo velo interpella direttamente chi lo guarda.
Forse si tratta della disponibilità continua di offrirsi allo sguardo dei
curiosi o dei pellegrini. Quel volto silenzioso si lascia guardare e ci guarda.
Sembra ascoltare e interessarsi alle vicende umane pur senza restarci
imprigionato. E più lo si guarda più si scoprono i segni del dolore, le ferite,
il sangue che bagna quel viso che ispira la pace. Più si contempla più si
schiude un sorriso dalle labbra. “Guardandolo” – suggeriva Don Renato, quando
qualche anno fa realizzò un piccolo dono con il volto santo – “cresce l’amore”.
C’è il volto di Gesù. Ci sono i volti dei ragazzi. Chi sta
accanto a loro con curiosità, poi con interesse, amicizia e anche amore scopre
che servendoli “cresce l’amore”. Manoppello è dietro l’angolo anche qui a
Pistoia, o Montecatini. L’estate è un tempo privilegiato per la scoperta di
questi volti. Spesso sono volti altrettanto misteriosi e silenziosi. Non
parlano o non comunicano con le parole. Portano ferite interiori o segni
esterni. Ma spesso, stando con loro, si aprono al sorriso e lo suscitano. Al
mare ci sono volti simpatici, volti di bimbi e di mamme, volti che si
addormentano, ridono e (qualche volta) piangono. Volti di chi è soddisfatto
prima e dopo il pasto, volti di fronte a un gelato! Volti tra le onde del mare
e tra i giochi sulla spiaggia. Volti che confessano segreti nelle camere più o
meno disordinate. Volti di chi prega, canta o danza.
Sappiamo stare in silenzio e in contemplazione di questi volti? Con i più gravi succede spesso di sentirsi di fronte all’orlo di un grande abisso, di fronte ad un mistero insondabile. Si può stare davanti a loro per guardarli e provare a capire. Ma lì davanti scorgiamo prima le nostre debolezze, poi qualcuno che ci interpella. Infine troviamo l’altro, quel nome che dice tutta la persona.
Ecco, a quel punto, pur con tutti i gradi di incompiutezza che ci sono propri- è possibile dire: “lo conosco!”, “so chi è”, “conosco il suo nome!”.
Sono passaggi che in fin dei conti avvengono con chiunque sperimenti un incontro più serio. Ma è in questi passaggi che avviene il miracolo e tra me e l’altro si rivela Gesù!
Così nasce e cresce la fede. Finché non incontriamo il volto di Gesù andiamo per sentito dire. Finché Dio rimane un’idea la nostra fede è filosofia. Finché non lo riconosciamo nei volti dei fratelli la fede è soltanto morale. Forse è anche da qui che dobbiamo ripartire per coltivare l’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI. Dai volti dei ragazzi e delle loro famiglie nasce la scoperta che spinge alla testimonianza. “Vieni e vedi!”. Ci viene spesso da ripeterlo agli amici o a chi non conosce la nostra realtà.
La testimonianza che nasce dal volto, cresce con la gioia e la condivisione, è la nostra missione. Riflettiamoci insieme anche in vista della GMG 2013 che si struttura attorno a questo tema: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19).
C’è però un’altra categoria di volti non meno sorprendente. Sono i volti dei volontari! E’ una delle grandi ricchezze della nostra realtà, ma talvolta è anche la più fluida ed eterogenea. Il volto di Gesù, nel e con il volto dell’altro non può lasciare indifferente anche il nostro!
Vorrei affidarmi e affidarci alle parole di un “maestro” che
ha imparato tutto (e tutto daccapo) dai piccoli. Si tratta di un brano tratto
dall’ultimo libro di Jean Vanier (Segni.
Sette parole per Sperare, Ed. San Paolo, Milano 2011), che così riporta al
capitolo intitolato “Comunità”:
“Il sistema sociale dominante del momento perverte la vita di comunità e le relazioni. Perché in genere ci sono dei centri specializzati per questi e dei centri specializzati per quelli: ospedali, case di cura, luoghi di aggregazione elitari ecc. Tutti si circondano di muri. La maggior parte dei centri professionali sono altamente specializzati, accolgono soltanto una categoria ben precisa di persone. La creazione di una comunità dell’arca diventa sempre più complicata per via di regolamenti specifici, di una normalizzazione che detta legge. I simili devono stare con i simili. Come creare dei luoghi in cui i cuori possano essere toccati e donarsi gli uni gli altri in una vita di relazione? Come creare spazi in cui sia possibile l’incontro .. luoghi in cui la vita circoli a partire dai quali possa esserci una scambio profondo? Come possono riprender speranze le nostre società, se non grazie a questi spazi umani e comunitari? Abbiamo bisogno di luoghi di appartenenza di questo tipo: aperti e relazionali. In posti del genere, forse, diventiamo capaci di recuperare ciò che molte istituzioni hanno perso e fatto perdere di vista: un senso del corpo. La debolezza dei corpi ci può insegnare a far corpo tra noi, formando piccole comunità, vulnerabili e solidali, una sorta di “comunità dal Basso.
Attorno ai nostri corpi fragili, già oggi c’è qualcosa di nuovo che nasce, ad esempio sul piano delle cure palliative. Ma c’è il rischio di voler risolvere ogni cosa grazie ad un volontariato individuale per non dire individualista. Per questo occorre ancora una volta provare a immaginare momenti di condivisione tra volontari. Lo dico con un po’ di rimpianto: non so se all’Arca riusciamo a programmare e a tener fede a incontri del genere. Viviamo dei momenti di grande vicinanza con le persone con un handicap, viviamo insieme delle belle celebrazioni, ma tra volontari, tra assistenti ci sono abbastanza momenti di condivisione, tempi di scambio di ciò che ognuno vive e sperimenta?”
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