lunedì 23 novembre 2009

"COME SI CHIAMI?" Il coraggio della complessità


"COME SI CHIAMI?" Due occhi azzurri puntati nei miei e una vocina che mi chiede come mi chiamo.
Qual'è il mio nome di fronte a Isabella che mi scruta seria? Chi sono io davanti a questa piccola bambina che gioca con me? E' il mistero che mi interroga sulle cose essenziali per eccellenza e lo fa con una modalità che sempre mi commuove e mi rapisce in quell'attimo dell'incontro.

Carissimi amici, nell'imminenza del prossimo incontro della Comunità Maria Madre Nostra (il 28 novembre), credo che potrebbe essere utile per tutti noi riflettere sul nostro impegno, sulle finalità e il carisma che ogni giorno ci viene affidato e che deve essere custodito come un tesoro prezioso nelle nostre mani. Per aiutarci nelle nostre meditazioni, pubblico qui di seguito una bella intervista rilasciata da Jean Vanier all'Osservatore Romano una settimana fa.

Vi abbraccio tutti e vi do appuntamento per sabato 28 novembre ore 17.30 circa all'aias.


Il coraggio della complessità

di Giulia Galeotti (intervista a Jean Vanier ndr)

Era la notte di Pasqua 2001. A Lourdes faceva davvero molto freddo. I più fortunati erano riusciti a trovare posto in Chiesa, ma noi, giunti in ritardo, assistemmo alla messa sulla spianata. Eravamo tantissimi, seduti sotto pile e pile di coperte da campo: con il buio e il freddo che aumentavano. A un certo punto, però, diffondendosi come un'onda, un passaparola iniziò a scaldarci tutti. Jean Vanier non era in chiesa: stava seguendo la celebrazione all'addiaccio come noi. In fondo, non poteva essere altrimenti: prima ancora che le parole, sono stati i gesti di quest'uomo ad aver dato senso e bellezza all'esistenza di milioni di persone sparse nel mondo.

La sua vita è caratterizzata da brusche inversioni di rotta. Mi sembra, però, che (sia pure in forme diverse), dalla scelta che lei compì a 12 anni nel 1942 entrando in Marina a ciò che ha scritto dopo l'11 settembre 2001 ritorni sempre il profondo bisogno di costruire la libertà e la pace.

Direi di sì. Quando entrai in Marina, vi fu sicuramente questo elemento. Ma quando poi decisi di lasciarla, vi fu ancora il desiderio di trovare una nuova strada per costruire la pace. E fu quella di seguire Gesù, e di vedere dove mi avrebbe condotto. Quando fondai l'Arca nel 1964, vi fu in me un forte desiderio di giustizia, di unità e di pace da perseguire accogliendo persone che erano state profondamente rifiutate (negli anni Sessanta molti disabili venivano nascosti negli istituti). (...)

Se dovessi riassumere il suo percorso dall'agosto del 1964 a oggi, sceglierei una frase di Etty Hillesum: "Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te".

Gli ebrei e, in particolar modo, i discepoli stavano aspettando un messia che avrebbe messo i romani alla porta, e che avrebbe ridato dignità al popolo ebraico. Ma Gesù non è venuto solo per liberare gli ebrei dal giogo dei conquistatori romani, è venuto per dare la libertà a ogni persona. È il mistero di Cristo: dare la libertà a ciascuno in modo che vi fosse la pace, e che tutti noi imparassimo ad amarci gli uni gli altri superando i muri e i fili spinati delle frontiere. Credo che quando il mondo è diventato carne, Dio è divenuto il fratello maggiore di ciascun essere umano che è esistito, che esiste e che esisterà. Il cuore del messaggio di Gesù è che ogni persona è preziosa; è venuto a cambiare i nostri occhi, in modo tale da renderci capaci di vedere che ogni persona lo è. E ogni persona è preziosa perché ciascuno di noi diventa il luogo dove Dio risiede.

La sua vita è dedicata alla disabilità mentale, ma il suo messaggio sul valore della diversità vale per ogni differenza: a proposito del massacro in Ruanda, lei ha scritto "uccidere l'altro perché è diverso, significa voler uccidere quella parte di tenebre che ciascuno ha dentro di sé".

Siamo veramente spaventati dalla differenza.

Così, abbiamo perso la consapevolezza della nostra comune identità di figli di Dio. Ciascuno di noi è chiamato a essere figlio di Dio. Invece ci creiamo un'identità nazionale o religiosa, e disprezziamo gli altri, li guardiamo dall'alto in basso, non vediamo in loro nulla di buono.

Ha scritto osservazioni molto interessanti sul delirio di onnipotenza dell'uomo di oggi. È un punto su cui ritorna anche Benedetto XVI nell'enciclica "Caritas in veritate", ricordando come la missione della Chiesa sia proprio "una missione da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione".

Usiamo la tecnologia per aiutare le persone a diventare più umane, oppure la usiamo per avere più potere?

Quindi, se usiamo la tecnologia per il potere, se la usiamo per schiacciare le persone, allora noi distruggiamo ciò che è umano. Se invece la usiamo per aiutare le persone a diventare più umane, allora davvero la utilizziamo per crescere nel rispetto e nell'amore per gli altri, e, in particolar modo, per chi è debole e ferito, per chi è diverso. Perché ogni essere umano è prezioso, a prescindere da quelle che siano le sue capacità o le sue incapacità, la sua fede o la sua cultura.

Passando al suo impegno all'Arca, dal primo giorno lei ha colto l'aspetto centrale che deve aver presente chiunque si avvicini alla disabilità. Rispetto a Raphaël e Philippe ha scritto: "Tirandoli fuori da un manicomio, sapevo che era una scelta che mi impegnava per tutta la vita: era impossibile creare dei legami con loro e poi, dopo qualche tempo, rimetterli in ospedale o altrove".

Se per ciascuno di noi essere abbandonati è un grande dolore, lo è, probabilmente, in misura maggiore per chi già è stato rifiutato o accettato in modo ambivalente alla nascita, per chi ha difficoltà di prendere il telefono e ricordarti che c'è, o per arrabbiarsi perché ti sei scordato del suo compleanno! È centrale tentare di immedesimarsi. Sì. Il punto centrale con le persone disabili è quello di comprenderle. Ma non è solo questo: occorre far capire loro che hanno valore. Quando facciamo delle cose per gli altri, finiamo spesso per farli sentire piccoli perché io "ti" sto facendo qualcosa, "ti" sto dando qualcosa. Ma nell'Arca e in Fede e Luce v'è qualcosa di molto più profondo: cerchiamo di mostrare a chi è stato rifiutato e ferito che è una persona preziosa. Molti di loro hanno vissuto momenti estremamente difficili, hanno sperimentato l'essere stati una delusione per i loro genitori: per il bambino è dolorosissimo. Quindi, dobbiamo anche cercare di aiutare i genitori a vedere e a comprendere che il figlio non è una delusione, non è qualcosa che non funziona, ma è invece una persona esattamente come noi, una persona con le sue difficoltà e i suoi handicap che sono, semplicemente, più visibili di quelli degli altri. (...)

Questo è il segreto. Anche qui: quando siamo generosi, quando facciamo qualcosa per qualcuno, noi abbiamo un certo potere su quella persona. Ma con Fede e Luce o con l'Arca è diverso: noi entriamo in relazione con loro. Ed è nella relazione che io mostro loro che sono importanti. È nella relazione che dico loro: raccontami la tua storia, raccontami il tuo dolore. In questo modo, però, anche noi diventiamo vulnerabili: entrando in relazione con le persone disabili, noi stessi diventiamo vulnerabili.

Li ascoltiamo, e sappiamo che non sappiamo cosa fare. È proprio questo il messaggio: voglio parlare con te, ti amo, ma non ho la soluzione per i tuoi dolori, voglio solo accompagnarti. È il segreto di Fede e Luce. Non diamo soluzioni, non abbiamo soluzioni: ma possiamo parlare con loro. È così che si sentiranno compresi, si sentiranno amati e preziosi. Lo ripeto sempre: il cuore della pedagogia dell'Arca è semplicemente quello di dire: sono felice vivendo con te, stando con te. È costruire relazioni che ci uniscono.

La cosa incredibile è stata scoprire che tutto ciò che lei ha detto per "loro", vale anche per noi. È successo anche a me: essere conosciuta e ascoltata, anche in modo non convenzionale, mi ha fatta cambiare, mi ha accompagnata e amata.

Già. Ma questo è un aspetto che moltissime persone non capiscono. Viviamo in una cultura in cui ognuno vuole avere successo, vuole arrivare in cima alla scala, avere più potere (anche più potere per fare del bene!): è la cultura della competizione. Invece, siamo chiamati a costruire una cultura di relazioni e di amore. Il messaggio di Gesù è proprio quello di amarci a vicenda, come lui ha amato noi. In Fede e Luce non viviamo insieme, ma è una fedeltà che ci fa essere con loro. E così iniziamo a vedere un amico. Così ci accorgiamo che, in qualche modo, stiamo costruendo una cultura di pace, che ci stiamo allontanando dalla cultura della competizione il cui unico fine è dimostrare che sono migliore di te. In modo assolutamente misterioso, le persone disabili ci cambiano e ci trasformano.

Doloroso è anche il rapporto tra la disabilità mentale e la medicina. Prescindendo dalle obiezioni (a volte esplicite, altre implicite) del perché-non-si-è-evitata-quella-nascita, molti medici tendono a fare il minimo indispensabile, a considerare il paziente disabile come un paziente di serie B sul quale vale poco la pena di perdere tempo. A volte è difficile far capire loro che un paziente disabile è un paziente e basta.

Lo si vede ovunque. È sempre la paura del diverso. A una mia amica della comunità venne detto che la bambina che aspettava era affetta da Trisomia 18 (patologia che farà nascere il feto morto o che lo farà morire a breve). Questa donna ha avuto difficoltà enormi: tutti insistevano perché abortisse, anche la pediatra che l'avrebbe dovuta aiutare, e che invece era terrorizzata. Credo che molti medici siano spaventati. Non hanno il tempo o non sono stati aiutati a prendere il tempo necessario per vedere la persona dietro la disabilità. È proprio questo ciò che san Francesco trovò: la persona dietro la lebbra. Da un certo punto di vista, è la storia di tutte le persone. L'ubriaco, il drogato, il carcerato: c'è comunque una persona dietro. Forse il detenuto ha commesso un grave crimine, ma v'è comunque un bambino in lui. Il messaggio di Gesù è proprio quello di scoprire e di accettare la persona dietro tutte le difficoltà.

Il mondo vuole accettare le persone con disabilità solo se possono essere reinserite, se possono vivere da sole. Molti Stati e molte leggi li accettano solo se possono in qualche modo diventare "normali". Come tutti gli altri. È il rifiuto di accettare le persone semplicemente per quello che sono. Perché non esiste qualcosa come la normalità o l'anormalità: ogni persona è diversa. È fondamentale creare società in cui ciascuno sia visto e sia considerato importante.

Il cammino sembra farsi sempre più difficile man mano che la medicina e il diritto ci forniscono nuove possibilità per eliminare il disabile prima della nascita e per costruire il figlio perfetto. Già nel lontano 1988 lei scriveva che "le manipolazioni genetiche permettono di scegliere il bambino dei nostri sogni e dei nostri calcoli, invece di ricevere il bambino come un dono, nato dall'amore. Oggi, l'uomo e la donna corrono il rischio di essere programmati come dei computer".

È l'eugenetica di oggi volta a creare il figlio perfetto. Scelgo un maschio, un maschio che voglio diventi un grande pianista. Il problema è che i genitori debbono imparare a separarsi dai figli: non siamo il prodotto dei nostri genitori! Loro ci mettono al mondo, ma poi tutti dobbiamo imparare a lasciarli. Devo comprendere non quello che i miei genitori vogliono da me, ma ciò che Dio vuole da me. Il pericolo di questa eugenetica è che il genitore vuole possedere il figlio, mentre ciò che dovrebbe fare è permettergli di diventare ciò che sente essere la sua vocazione. Aiutare il figlio ad accettare la sua disabilità, ad accettare i doni che ha o che non ha. Aiutarlo a prendere le decisioni, a essere responsabile per la sua vita. Non scegliere un figlio e farlo diventare cosa io voglio che diventi, ma comprendere che mi è stato dato un figlio da Dio, e che quel figlio va aiutato a scoprirsi e ad accettarsi per quello che è.

Se non mancano le madri che abbandonano i figli disabili, il grande assente è stato e resta a tutt'oggi il padre: sembra quasi che i bimbi disabili siano stati concepiti miracolosamente senza intervento maschile.

È veramente doloroso. A prescindere dal fatto se si tratti di un figlio disabile o meno, dobbiamo considerare che la madre ha una relazione particolare con il bimbo, dovuta al fatto di averlo portato in grembo. Al padre questo legame manca: il padre vede solo gli aspetti negativi della relazione. Nella mia comunità organizziamo incontri solo con i padri: è incredibile scoprire la loro pena. Il loro dolore è così diverso da quello delle madri, specie se il figlio disabile è maschio. C'è un dolore immenso. Non si tratta di condannarli, ma di capire che hanno bisogno di un aiuto particolare. Succede davvero troppo spesso che l'uomo dica alla madre: se non abortisci, se non metti il bambino in istituto, ti lascio. E così, abbiamo tante famiglie monoparentali con madri che vivono sole con il figlio disabile. È una realtà terribile. Qui davvero Fede e Luce può fare tanto.

Uno dei passaggi che più mi colpiscono del Vangelo è quello in cui Gesù dice: "Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi" (Giovanni, 21, 18).

È la storia di tutti noi. Io ho 81 anni, e verrà il tempo (il prossimo anno, nei prossimi anni) in cui qualcosa succederà.

Diciamo nei prossimi vent'anni!

(Ride) Ne avrò oltre 100! Dobbiamo scoprire la bellezza di ogni realtà. Se siamo nel dolore, dobbiamo cercare di capirne il mistero: questo impariamo all'Arca o in Fede e Luce. Imparare a scoprire che nella debolezza siamo chiamati ad amare e ad andare verso l'amore. C'è una bellissima frase che Giovanni Paolo II pronunciò in Vaticano nel gennaio 2004: le persone disabili possono diventare araldi di un mondo nuovo. Possono insegnarci la via verso l'amore e la solidarietà. È il mistero. Per le persone intrappolate nell'efficienza, tese a raggiungere la sommità della scala, è difficile scoprire il mistero dell'umiltà e della relazione.



sabato 21 novembre 2009

Verso la beatificazione di Giovanni Paolo II

Ciao a tutti, inserisco questo articolo sulla figura di Giovanni Paolo II, che ho letto su "La Stampa" e che trovo interessante. Non inserisco un mio personale commento anche perché tratta di una tematica per me misteriosa ed in un certo senso incomprensibile.



"Papa Wojtyla si flagellava"
Karol Wojtyla, Papa Giovanni Paolo II

Suora-governante: finché è stato in grado di farlo si è sottoposto a penitenze corporali
GIACOMO GALEAZZI
CITTA’ DEL VATICANO
Il «flagellante» Karol Wojtyla. Tra le migliaia di pagine all’esame in Vaticano per proclamare beato Giovanni Paolo II, figura una straordinaria testimonianza di suor Tobiana Sobódka, la superiora delle suore polacche «Ancelle del Sacro Cuore di Gesù» che prestavano servizio nell’appartamento pontificio e accudivano il Papa.

La deposizione della religiosa rivela nella «positio» che Karol Wojtyla si sottoponeva a penitenze corporali e getta nuova luce sul rapporto stretto di natura mistica che legava Wojtyla alla fede. Lunedì scorso si è svolta la riunione dei cardinali e dei vescovi membri della Congregazione delle cause dei santi, chiamati a esaminare la causa di beatificazione. L’esito della riunione è stato positivo e i cardinali si sono unanimemente espressi in favore della proclamazione dell’eroicità delle virtù del Pontefice polacco.

«Molto spesso si sottoponeva a penitenze corporali. Lo sentivamo, a Castel Gandolfo avevo la camera piuttosto vicina alla sua. Si avvertiva il suono dei colpi quando si flagellava. Lo faceva quando era ancora in grado di muoversi da solo», svela la religiosa polacca nella ricostruzione contenuta nel libro «Santo subito» del vaticanista Andrea Tornielli. Dunque Giovanni Paolo II, che aveva perso tutta la famiglia prima di diventare sacerdote e aveva subito l’attentato del 1981, si infliggeva anche penitenze corporali, flagellandosi.

Le penitenze di Wojtyla sono confermate anche da un altro testimone privilegiato, il vescovo africano Emery Kabongo, per alcuni anni secondo segretario di Giovanni Paolo II. «Faceva penitenza - racconta - e la faceva in modo particolare prima delle ordinazioni episcopali o sacerdotali. Prima di trasmettere agli altri i sacramenti desiderava prepararsi. Non sono stato testimone diretto di penitenze corporali, ma mi è stato raccontato che vi si sottoponeva». Inoltre, continua il prelato, «quando Karol Wojtyla pregava non era distratto da nulla. Ricordo che quando presi servizio nell’appartamento papale, mi venne subito spiegato che quando il Santo Padre stava pregando, anche se si trattava di qualcosa di importante, bisognava aspettare per avvertirlo, perché per lui la preghiera veniva prima di tutto.

«Prima c’era Dio, poi tutto il resto, compresi i problemi del mondo». Insomma, sottolinea Kabongo nel libro di Tornielli, «quando Wojtyla pregava, pregava come qualcuno che sa davvero di che cosa si tratta. Si immergeva in Dio, dialogava con Dio». Un «Wojtyla privato» noto anche al suo fotografo personale, Arturo Mari dell’«Osservatore Romano». «Pregava in cappella, ma anche seduto sulla poltrona, nei cosiddetti momenti di riposo che per lui non sono mai stati tali - rievoca Mari-. Pregava quando moriva qualcuno: per un amico, una persona conosciuta, o le vittime di un attentato o di un incidente. Pregava quando veniva a sapere che da qualche parte la situazione politica era grave, quando scoppiava una guerra. Pregava quando aveva un problema, quando gli arrivava qualche brutta notizia su una situazione da risolvere. Andava in cappella e ci rimaneva fin quando non aveva risolto la questione».

Pregava molto anche nei Paesi che andava a visitare. «I suoi raccoglimenti li consideravo come momenti di preghiera per i problemi della gente del posto. Sembrava che si immedesimasse in loro, nelle loro sofferenze. Mi ricordo che a Vilnius è rimasto a pregare in ginocchio per sei ore, senza sosta», conclude Mari.

martedì 10 novembre 2009

VIDEO!

Cari amici,
grazie per la partecipazione al nostro ultimo incontro!

Domenica scorsa 8 novembre -grazie a Martina - i volontari si sono potuti incontrare per condividere opinioni, suggerimenti, problemi sul soggiorno estivo del Mare. Somo emerse tante proposte, ma soprattutto l'esigenza di un rapporto più stretto con i ragazzi del centro. Tanti sono rimasti profondamente colpiti dall'esperienza al mare: un momento di stupore, di crescita, di gioia e di festa: l'occasione di stringere amicizia e di conoscere "il continente handicap".

Conoscere le famiglie, incontrarsi durante l'anno, creare momenti di formazione e di condivisione durante l'anno: queste alcune delle proposte emerse nell'incontro. Come può rispondere la nostra Associazione?


Possiamo fare molto anche con..la televisione! Abbiamo bisogno, però, di nuove forze per la nostra trasmissione : "Ora Insieme"!
Aiutateci con i vostri suggerimenti e commenti. Grazie a Daniel, Irene e Benedetta per le ultime puntate..
Qui l'ultima :


http://www.tvl.it/orainsieme/index.html


Su NO PARKNG, i vlog del laboratorio multimediale dell'AIAS, è possibile vedere il rendering del nuovo progetto per il Centro AIAS di San Biagio!


http://aiaspistoia.wordpress.com/


Presto nuovi aggiornamenti e l'appuntamento al prossimo incontro di fine novembre!