Usciti dalle belle celebrazioni pasquali mi sembra bello custodire la gioia pasquale con questa "originale" riflessione di Giacomo Poretti (di Aldo Giovanni e Giacomo). Nella notte di Pasqua abbiamo avuto il dono del battesimo della piccola Teresa. Nella nostra Cappellina dell'APR non si tratta di avvenimenti frequenti, ma credo che sia stato significativo per tutti. Abbiamo bisogno di raccoglierci in momenti simili, non soltanto per condividere un momento speciale, ma per ricevere una grazia che ci viene donata, perché nella lode e nell'accoglienza si forma e cresce la nostra identità comunitaria. Possiamo fare nostre le parole di Giacomo Poretti e chiederci ...che "anima" vogliamo donare alla nostra Comunità?
Recupero il testo dal sito "Gli Scritti". L'articolo è stato pubblicato su La stampa del 15/4/2012.
Appena nacque nostro figlio, venne a trovarci in ospedale un carissimo amico, mio e di mia moglie, un vecchio sacerdote che qualche anno prima ci aveva sposati: padre Bruno. Non seppe resistere alla tentazione, e come tutti gli anziani che si trovano davanti a un neonato, cominciò a sorridergli e a scherzare con la voce, prima in falsetto, poi con un timbro baritonale, infine, imitando una papera, cercò di attirare l’attenzione di quell’esserino che aveva solo qualche ora di vita. Tentò anche di improvvisare il balletto dell’orso Baloo, ma dopo un accenno di tip-tap deve essersi detto che per un anziano sacerdote di 82 anni, che solitamente impiegava la sua voce per tenere le omelie, per condurre cineforum, moderare conferenze e dirigere un centro culturale (quella era la sua molteplice attività), forse il tip-tap in una stanza di ospedale era un poco eccessivo. Ci guardò, guardò nostro figlio, poi disse: «Bene, avete fatto un corpo, ora dovrete farne un’anima!». Salutandoci sorrise e uscì dalla stanza. Guardandolo andare via mi sembrava che ballasse il tip-tap e che nemmeno Gene Kelly avesse la sua leggerezza.
Che cosa voleva dire «farne un’anima»? Io e mia moglie ci scambiammo uno sguardo interrogativo. I nove meravigliosi mesi di laboriosa gravidanza, e tutte quelle ore faticose del parto, l’avevano sfinita: umanamente non le si poteva chiedere nessuno sforzo in più in quel momento, anche perché quei 3 kg e 750 gr di esserino ai nostri occhi erano bellissimi e, benché le dimensioni prefigurassero un avvenire da brevilineo, eravamo convinti che non mancassero di nulla. Mi turbava l’idea dell’anima, mi ripromisi di dare un’occhiata su Wikipedia per saperne di più; in quel momento entrò il medico per accertarsi delle condizioni di mamma e figlio, e mentre annotava qualche dato sulla cartella clinica gli chiesi dopo quanti giorni si sarebbe manifestata l’anima, se prima o dopo i denti da latte, e se ce ne saremmo accorti da qualche prodromo tipo febbre o colichette. Lui prima mi fece sedere, mi auscultò il polso, mi obbligò a inghiottire una pastiglia e infine disse: «Deve essere stata un’esperienza un po’ scioccante per lei assistere al parto, chissà da quante ore non riposa, e poi tenere fra le braccia il proprio figlio! Lo mandiamo a casa a dormire, questo papà?».
In effetti prendere fra le braccia il proprio figlio era stata un’esperienza terrorizzante, come salire dietro ad Alonso sulla sua Ferrari mentre sta disputando il Gp del Nürburgring. Mi era sembrato di avere avuto in braccio la cosa più fragile dell’universo, più fragile di una flûte di cristallo, di quelle che si rompono sempre quando le metti in lavastoviglie; altro che un figlio, mi sembrava che stessi cullando una bomba atomica: non mi muovevo, non respiravo, non contraevo un muscolo. In genere si riesce a resistere in quelle condizioni non più di un minuto e quaranta secondi, e quando l’infermiera te lo toglie dalle mani facendolo roteare come un giocoliere tu speri di riabbracciare tuo figlio il giorno in cui si laureerà.
Farne un’anima? Dopo la prima ecografia che ci rivelò essere un maschietto, ricordo che fantasticai di farne un avvocato, un architetto, un laureato in scienze economiche; un vincitore del Pallone d’oro con la maglia dell’Inter, tutt’al più un campione di tennis, uno skipper, un produttore di vini nel Salento, uno chef da 3 stelle Michelin! Farne un anima!? Avrà senso nell’era della potenza tecnologica più dispiegata ? Cosa te ne fai di un’anima quando tra non molto potrai prenotare via Internet un drone telecomandato che te lo mandano a casa e ti stira le camicie e ti svuota la lavastoviglie? Poi torni a casa la sera e trovi il drone ridotto a ferraglia perché la tua colf lo aveva scambiato per un ladro e preso a bastonate.
Me lo immagino il confronto con gli altri genitori: «Mio figlio ha conseguito la maturità con il massimo dei voti al Liceo San Carlo, ha il diploma di miglior centrocampista offensivo conseguito quest’estate in uno stage a Rio de Janeiro, parla inglese fluently grazie alla permanenza bimestrale nel college Nathaniel Winkle di Brixton nella contea di Hampstead, e come hobby progetta applicazioni per iPad. E suo figlio?». «Stiamo cercando di fargli conseguire un’anima...». «...ma cos’è? Un liceo sperimentale, o frequenta una comunità di recupero per tossicodipendenti?».
E poi, un’anima come la si crea? Quanto incide una corretta alimentazione nel contribuire al progetto? E nel caso, sarebbe meglio una dieta iperproteica o senza glutine, oppure povera di sodio? E gli amminoacidi ramificati, la carnetina, oltre ad aumentare la massa muscolare, potrebbero far lievitare l’anima? L’anima è più sviluppata nei vegetariani o negli obesi? E quale attività sportiva predilige un’anima? Una disciplina aerobica o anaerobica? Mi spiego: è più adatta per un’anima la maratona o il curling? oppure sarebbe meglio lo sci da discesa con attrezzi curving o lo snorkeling con pinne lunghe? E poi che giochi si regalano a un bambino per agevolare il processo: pistole, frecce, Gameboy o il puzzle del Libro tibetano dei morti?
Ma soprattutto, a cosa serve un’anima? Nessuno più te la chiede; quando ti fermano i carabinieri si accontentano di patente e libretto; se acquisti su Internet, bastano carta di credito e mail e il resto del mondo pretende e desidera solo account e password! A pensarci bene, un’anima sembra la cosa più antimoderna che possa esistere, più antica del treno a vapore, più vecchia del televisore a tubo catodico, più démodé delle pattine da mettere in un salotto con la cera al pavimento; lontana come una foto in bianco e nero, bizzarra come un ventaglio, eccentrica come uno smoking e inutile come un papillon.
Telefonai a padre Bruno e chiesi: «Ma come si fa a fare un’anima?». E lui rispose: «Cominci con il ringraziare». «Chi?», domandai. «Il Padreterno che le ha donato un figlio e queste cose meravigliose che sono il mondo e la vita». «E se non ci credessi, se fosse tutto un caso?». «E lei ringrazi il caso, che non ha faticato meno del Padreterno, benedica la circostanza, ma non si dimentichi mai di ringraziare».
E poi aggiunse: «La seconda qualità dell’anima è la gentilezza, sia sempre gentile con tutti». «Anche con quelli sgarbati? Anche con quelli che ti fanno domande importune?». «Sì, sia sempre gentile e chieda: perché vuole saper proprio questa cosa? Vedrà che cambierà domanda o starà in silenzio».
Padre Bruno mi congedò perché era affaticato, mentre io avrei avuto altre cento domande da fargli a proposito dell’anima. «Le prometto che verrò a visitarla in sogno». Sorrisi della sua affermazione e dissi: «Ma non si disturbi, vengo io a trovarla in sagrestia». La notte stessa ci lasciò perché, come lui amava dire, era arrivato il giorno dell’appuntamento con la Persona più importante.
Un giorno ero assorto nei miei pensieri, quando un tizio in maniera assolutamente sgarbata mi rivolse la seguente domanda: «Perché ha parcheggiato la macchina in seconda fila?». Io misi in pratica il consiglio di padre Bruno e gentilmente chiesi: «Perché vuole farmi proprio questa domanda?». E lui: «Perché sono un vigile e questa è la sua bella contravvenzione, e mi ringrazi che oggi sono di buon umore, altrimenti gliela facevo rimuovere la sua bella macchinetta, ha capito?».
Ho ringraziato gentilmente. Ma poi guardando meglio mi accorsi che il vigile rideva, ma non solo era padre Bruno travestito. Lo stavo sognando! Mi abbracciò e chiese: «Allora come se la sta cavando con l’anima?». «Mi applico ma non ci capisco niente. Ma, padre Bruno, l’anima è una cosa che esiste solo nelle canzoni, quasi sempre in inglese...». «Si ricordi un’altra cosa: l’uomo supera infinitamente se stesso». E svanì come nella nebbia, anzi come in un sogno.
Al risveglio mi accolse il sorriso di mia moglie, e dopo essermi stiracchiato come un gatto le dissi: «Lo sai, amore, oggi sento che posso infinitamente superare me stesso». E lei rispose: «Come te la tiri!». Mi sa che ci vuole pratica per fare un’anima!
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